I funerali sono sempre momenti un po' imbarazzanti.
Aldilà del dolore, della mancanza, del senso di abbandono succede sempre qualcosa in grado di scatenare le reazioni meno opportune.
Ciò che più di tutto mi spinge al sorriso, in queste occasioni, è l'omelia del
sacerdote che tiene il funerale: escluse rarissime eccezioni, questi discorsetti improvvisati sono spesso goffi e del tutto privi di tatto.
E' pur vero che a questi poveri sacerdoti viene chiesto, nel giro di ventiquattr'ore, di metter su un discorso convincente, il più possibile consolatorio e soprattutto che faccia strettissimo riferimento ad un libro scritto più di duemila anni fa. Difficile, davvero difficile.
L'altro giorno sono stata ad un funerale: l'omelia era iniziata davvero bene, davvero, davvero convincente. Le parole del sacerdote erano pressappoco queste: va bene soffrire per chi se ne va, ma noi che restiamo per cosa viviamo le nostre vite? Le stiamo spendendo per fare le cose giuste o le stiamo semplicemente buttando via?
Subito dopo ha iniziato a parlare di tutto il resto, di ciò in cui io non credo, di parabole, dèi, santi, vergini e sposi, ma l'incipit mi ha non solo raggiunta, ma anche colpita in pieno volto.
E allora ho provato a chiedermi davvero come sto vivendo la mia vita, e non perchè penso debba renderne conto ad un qualche dio, o perchè dopo la mia morte tutti i miei nodi verranno al pettine, no, ho provato a farmi questa domanda così, tanto per sapere.
Forse non avrei dovuto.
i discorsi dei preti ai funerali mi hanno sempre irritata, tirano fuori delle vaccate pazzesche -_-
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